sabato 23 febbraio 2013

Una partita di ping pong


Ti è mai capitato di parlare e sentirti come un principiante ad un tavolo di ping pong?

Interloquire con  qualcuno è un pò  come battere la pallina e aspettare che venga respinta, il corpo teso in un fascio di muscoli e nervi in attesa di vedere da quale parte rimbalzerà, per non perdere  l’opportunità di rispondere, per capire l’avversario, seguire ogni suo guizzo. Capita spesso però che - invece di scaricare la tensione dell’attesa - ti ritrovi a caricarti di una disarmante delusione. Non solo non riuscirai a colpire quella pallina, non la vedrai nemmeno, come inghiottita da un buco nero tetro e buio come la notte senza luna e senza stelle perché il tuo compagno non  vuole proprio giocare la partita, anzi , non si è nemmeno accorto di essere in campo. 
Non è da tutti saper ascoltare, cogliere le necessità espressive degli altri, essere interessato anche solo a valutare la possibilità di interagire e ti senti stupido aspettando una risposta che non ci sarà e la partita è già persa, sì perché qui non vale la regola che vince chi non si presenta,  perdenti sono entrambe le parti anche se in quel momento se ne accorge solo una, quella che desiderava confrontarsi.
Il paragone con la pallina mi piace perché rende l’idea delle aspettative che si hanno nell’attesa di una risposta, ma nel dialogo non dovrebbero esserci avversari, solo giocatori in allenamento che si scambiano esperienze, la differenza è che si gioca con la vita, con i sentimenti.
Quale altra cosa assomiglia di più alla solitudine che avere dinanzi una persona che non ha interesse ad ascoltarti?  Non credo si tratti di egocentrismo, ma di una vera e propria necessità di “essere” veramente  soggetto che testimonia la propria individualità.
Quando la società ha cominciato a rinnegare se stessa coltivando invece un esasperato individualismo?
Nonostante la massiva presenza di mezzi di comunicazioni di massa dei quali peraltro non riusciamo più a far a meno, la cultura dell’apparire più che dell’essere, ci ritroviamo stranamente in un’epoca nella quale tutti si cammuffano o si nascondono. Dobbiamo dimostrare di essere meglio  di altri o avere più di altri non importa con quale metodo, non conta se ci falsifichiamo o se il possesso di quelle cose non ci interessa veramente, ma perché?
Perché da un lato vogliamo apparire e dall’altro ci nascondiamo dietro pseudonimi?
Tutti scrivono su social network , chattano, mandano mail, commentano qualsiasi cosa, ma difficilmente espongono la vera identità. La libertà di opinione e di espressione in tutte le sue forme – se lecite - è sacrosanta, ma credo che per avere diritto ad esercitarla sarebbe doveroso qualificarsi pubblicamente. In parole povere “ficchiamo il naso”  volentieri nei fatti altrui ma garantendoci il sacrosanto anonimato, liberi quindi dal  risentire dei giudizi sul nostro operato che non lesiniamo sulle opinioni od operato altrui.
Abbiamo ideato  regole che chiamiamo della trasparenza e regole che chiamiamo della riservatezza, ma non sortiscono l’effetto desiderato, rimane difficilissimo avere chiarimenti su procedimenti che dovrebbero essere limpidi mentre i nostri dati personali continuano a circolare e sono manipolati  per scopi spesso non chiari. L’unica cosa chiara è che in entrambi i casi alla base c’è oltre ad un fatto di “cultura italiana”,  una motivazione economica.


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