Era una mattina qualsiasi, una di
quelle che hai tante cose per la testa ma non sai bene a cosa stai pensando. Vorresti avere un
registratore cerebrale per poter finalmente razionalizzare, la sera, con calma, quanto si è accumulato nella mente in maniera sparsa e apparentemente
casuale durante la giornata.
E’ come se il tuo corpo fosse
percorso a tratti da improvvise energie che t’illuminano per un attimo, per poi
lasciarti subito dopo come lampi nella notte che, dopo averti abbagliato, ti
fanno sprofondare in tenebre ancor più profonde.
Ti ricordi le cose più banali,
non certo quelle che ritenevi vitali e ti senti come se ti fosse sfuggita per
sempre la chiave per la soluzione dei problemi della vita.
Di quella mattina ricordo -ad
esempio- un uomo anziano, con un grosso naso, fermo dinanzi al cartello che
segnala il punto dove i bambini aspettano
di essere accompagnati alla scuola elementare dai volontari; lo immaginavo dire
fra sè: “ma cusa l’é il pedibus?”
Più avanti, dinanzi ad un
semaforo rosso, una suora sembrava combattuta ed io la immaginavo ripetere
mentalmente: “Non puoi attraversare, anche se non passa nessuno, bisogna
rispettare le regole”, mentre i suoi piedi scalpitavano nervosi.
Un uomo camminava per la strada con
il telefonino alle orecchie e sorrideva.
Era bellissimo vedere il suo
sorriso compiaciuto mentre ascoltava qualcuno all’altro capo, chissà, forse
all’altro capo del mondo.
Avrei voluto strapparglielo dalle
mani per dire a quella persona: “Sta sorridendo, sta sorridendo per te”
E’ bellissimo un sorriso, è come
l’apertura fra le nuvole quando appare il sole e mi sembrava sprecato, eppure - ho pensato - anche una videochiamata non avrebbe reso
giustizia; il volto era completamente libero di esprimersi, senza vedersi queste
persone davano libero sfogo all’immaginazione, percependo le emozioni l’uno
dell’altro dal solo tono della voce.
Intanto mi domando dove sono finite
tutte le cose importanti che avevo sicuramente pensato, forse in qualche
angolino del mio cervello e, se mi sforzo, posso ritrovarle, ma non ho voglia di
rincorrerle.
Lascio che i miei pensieri
scorrano liberi, stupidi, incongruenti, belli, brutti, voglio lasciarmi
attraversare dal mondo, ma senza rimanerne schiacciata.
Non ho imparato ad accettare
tutto, ma a capire che tutto può rientrare in un contesto di normalità, anche
se può far male, a sé e agli altri.
Accettazione ma non passività,
quella serenità di spirito che ti fa capire che tutto può accadere, anche a te,
e non serve demonizzare gli eventi o le persone, ma è utile reagire per trovare
soluzioni.
A comporre la singolarità di ogni
individuo concorrono potenzialità e attitudini, non sono solo il DNA, corpo e
mente si mescolano in un amalgama che non ha eguali, la cui composizione si confronta
con le variabili ambientali, con i sentimenti, con i giochi dettati dalla pura
casualità, dalla volontà e dalla tenacia che ognuno di noi riesce a
estrinsecare. Ma la nostra unicità non significa immobilità, siamo esseri in continuo cambiamento, non
possiamo sapere cosa significherà per noi il prossimo istante, cosa comporterà
incrociare un nuovo sguardo, cosa scatenerà in noi un nuovo bisogno. Anche se pensiamo di conoscerci
perfettamente, anche dopo una sincera introspezione, non potremo mai dire “Mai”.
Anche il mio attuale black-out è
normale, tutto si confonde, il cervello vaga in un limbo d’idee ovattate che
viaggiano come cumuli spinti dal vento, a tratti debole, a tratti forte, si
uniscono uno all’altro formando un’unica grossa nube per tornare a separarsi dopo poco lasciando il mio
corpo come inerte spettatore.