sabato 18 maggio 2013

Ero pazza e sono guarita?




Da bambina pensavo: “Gesù fammi riposare, fammi smettere di pensare”, parlavo da sola e mi davo risposta, insomma ero compagna di me stessa, mi domandavo perché la luna mi seguisse e fantasticavo immaginando quante persone avessero pensato o fatto la stessa cosa nello stesso momento in tutto il mondo.
Mi domandavo se fosse vero che eravamo unici e irripetibili o se avessimo da qualche parte un nostro doppio identico, su questo o su un altro pianeta.
Da bambina, sono sicura, ero pazza; anche se sarò tediante, non voglio rinnegare una riga di quanto scrivo, sarebbe come tradire me stessa.
Dicevo, da bambina ero pazza, di una pazzia che a volte mi consolava, a volte mi faceva soffrire.
Vedevo mio nonno paterno, direte che è normale…. peccato che mio nonno fosse morto quando io avevo solo due anni; lo vedevo spesso camminare per la strada, io per un po’ lo seguivo ma lui non mi riconosceva. Nessuno in casa si è mai saputo spiegare perché ricordassi con tanta precisione e dovizia di particolari il breve periodo della vita passata insieme.
Ricordo un viale alberato mentre mi portava sul seggiolino della sua bicicletta a comperare le cipolle cotte nel forno a legna, ricordo che mi avvicinavo al tavolo da pranzo e gli tiravo la giacca quando mangiava il carciofo e arrivava al cuore che mi cedeva divertito. Avevo solo un anno quando la nonna paterna è morta, ricordo il suo reggiseno con la coppa imbottita per mascherare la mastectomia, ricordo il suo letto coniugale, suo capezzale e la sua passione per il ghiacciolo alla menta.
Per anni mi è rimasto il terrore che questa terribile malattia  potesse privarmi del simbolo stesso della  femminilità, della maternità, forse l’unica cosa a cui non pensavo era la vita. Durante l’adolescenza scrutavo con ansia il mio seno appena abbozzato e avevo paura, paura che non l’avrei mai avuto, paura che non avrei mai allattato i figli che già desideravo e avevo comunque il terrore che prima o poi l’avrei perso. Ricordo che un giorno, correndo in un campo, sono inciampata e cadendo sono andata a sbattere con lo sterno contro un irrigatore. All’epoca si diceva che i colpi potessero favorire il “male”, mi parve che non ci fosse più scampo. Se su un giornale si parlava del “brutto male” correvo a lavarmi persino le mani come se quelle pagine di carta stampata potessero contagiarmi. Dopo tanti anni ho saputo che il rischio di trasmissione genetica di questo male corre per via femminile e quindi non avrei avuto più probabilità di ammalarmi di qualunque altra donna. 
Perché ho ricordi così nitidi di quando ero piccina? Come faccio  a ricordare la mamma che mi cambiava sul tavolino di marmo della cucina che era accanto alla stufa e mi lavava il sedere nel lavandino?
Da bambina pensavo che fosse un bel gesto donare, al di fuori della chiesa, i soldi della paghetta appena ricevuta dopo la consueta visita domenicale alla nonna materna, erano gli unici soldi che ricevevo ogni tanto, a parte le 10 lire per ogni dieci preso alla scuola elementare, premio di una vecchia zia quasi cieca e  che custodivo come un vero tesoro in un salvadanaio. Ho scoperto con delusione, dopo essere stata redarguita, che la nonna non la riteneva una cosa buona. Ma come! Il prete dice di donare ai poveri; ah, forse non è certo che sono poveri? Forse sono fannulloni? Ma, a proposito, perché la Chiesa predica la povertà ed è straricca e spende e spande per i suoi edifici, non credo che a Gesù Cristo interessi tutto questo sfarzo! Scusa nonna se non m’importa! Uguale principio, che per essere gentile chiamo diffidenza, l’ho trovato poi presente con stupore proprio nell'ambiente ecclesiastico dove si consiglia vivamente di non fare offerte per strada, ma di devolverle  alla Chiesa che penserà poi a ridistribuirle ai poveri. Insomma, non bisogna fare la carità agli sconosciuti! La cosa, detta così,  mi è parsa discutibile dato che mi avevano insegnato a tendere la mano ai bisognosi. Ho visto cacciare via da ambienti caritatevoli un extracomunitario che cercava un paio di scarpe perché non era orario di apertura al pubblico e perché non era del quartiere.  Ho visto allontanare ragazzi che volevano giocare a pallone dinanzi alla chiesa solo perché disturbavano le case vicine e poi bisognava pagare l’illuminazione perché era sera. Meglio farli andare al bar.
Anche questo mi è sembrata un’interpretazione della Parola molto discutibile.
Fin da piccola mi hanno insegnato che se si cammina sulla retta via, l’anima dopo la morte va in Paradiso con tutti i benefici del caso. Avevo sei anni quando improvvisamente è morto un caro zio. Ricordo che non capivo perché tutti piangessero. Dicevo: “Non piangere, adesso è ancora più felice e poi quando moriremo lo ritroveremo in paradiso”. Beata innocenza, in seguito ho imparato a piangere tanto bene che quando mi capitava di andare, per dovere di educazione, a funerali di persone che non conoscevo, mi disperavo tanto che pareva che il defunto fosse un mio caro e, più mi immedesimavo, più piangevo. 
Sono sempre sembrata timida ma coraggiosa al tempo stesso, cercavo di farmi forza perché amavo i miei genitori, ma la paura è sempre stata una costante, ma non paura per me stessa, paura di procurare dolore o danno ad altri, conosciuti o sconosciuti poco importava.
Immaginavo cose assurde, che un mio sbaglio potesse far cadere in errore qualcuno, che a causa della mia malignità, indolenza o incapacità qualcuno potesse pagare per qualcosa di cui io ero l’artefice principale, quindi il mandante. Questo pensiero limitava la capacità di scegliere quello che volevo veramente, cercavo solo  di non fare una scelta che potesse coinvolgere indirettamente altre persone da trascinare con me nel baratro, non ero sicura dell’esistenza degli inferi ma, nel caso fossero esistiti, non volevo infilarci qualcuno per colpa mia.
Nella mia testa di contestatrice però quale fosse o non fosse  “peccato” non era ben chiaro e l’insicurezza limitava ancor più i miei movimenti, la mia idea era di larga manica, ma il mio dovere era di essere restrittiva per il bene altrui.
Il senso di colpa non so chi te lo inculchi, non so se nasce con te o se dipende dall’educazione ricevuta o dal tuo vissuto. Mi è sempre piaciuto arrivare a fondo delle cose capendole, non ho mai sopportato di saper fare una cosa senza comprenderne il significato; anche questo è un limite perché se sai fare una cosa che oggi non capisci a fondo, domani se ne comprendi l’importanza la potrai utilizzare.
Difficilmente ho potuto memorizzare e fare mie cose che non capivo e per questo sono stata fondamentalmente una contestatrice. Contestare può essere segno di grande riflessione come di grande ignoranza.
Tante le domande che mi riempivano il cervello, quesiti che immagini di risolvere quando sarai grande e capirai. Perché c’è una distinzione così netta nel giudizio della gente fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, fra il bello e il brutto, come se non esistesse in mezzo nessuna sfumatura, tanta sicurezza quando ci si rivolge ad un pubblico, ma quando la valutazione riguarda la nostra vita privata nascono tante possibilità intermedie? 
Per fortuna che questo accade, ma non è una forma di ipocrisia?
Se è vero che la sofferenza è il prezzo del nostro peccato e nello stesso tempo il prezzo per la nostra resurrezione perchè gli animali non hanno un'anima ma soffrono anche loro?
Perché il colore della pelle deve avere tanta importanza?
Perché è meglio essere bianchi e poi essere schiavi dell’abbronzatura a tutti i costi?
Quando ero bambina - a Piacenza - c’erano pochissimi stranieri, ma qualcuno veniva a studiare all’Università Cattolica. Erano senegalesi, forse benestanti dato che potevano permettersi l’università in Italia, ma erano comunque guardati “male”. Io li ammiravo e quasi li invidiavo, avrei voluto fargli capire che non li discriminavo, non mi interessava il colore della loro pelle, anzi la trovavo fantastica, lucida, vellutata.  Avrei voluto essere nera, mi sarei sentita dalla parte dei giusti, degli oppressi. 
Quando giocavo con gli amici di mio fratello volevo stare nel gruppo degli indiani, quando tutti volevano fare i cow-boys che li ammazzavano. Ricordo che a Barcellona, durante una corrida, i mei genitori sono stati costretti a tapparmi la bocca perché facevo il tifo per il toro. Quante cose non ho  capito e non capisco.
Non capisco perché le donne non possano essere valutate per quello che sono, essere donna però mi piace, non vorrei essere uomo nemmeno un minuto, così, per prova. Mi sono sempre sentita femmina anche se non mi sono mai piaciuta esteticamente parlando. Perché  le donne  devono  essere sempre sfruttate, sfruttate fino al midollo e l’uomo nemmeno se ne accorge. Non che essere donna voglia dire essere brava e intelligente e buona però portiamo nel nostro DNA il peso di tanto malcostume e ingiustizia che non ne possiamo proprio più, ma non sappiamo come uscirne. L’unica via d’uscita è l’educazione che diamo ai nostri figli, ma ci vorrà ancora tanto tempo perché le donne stesse si devono prima liberare dai condizionamenti che subiscono da sempre per poter essere delle educatrici equilibrate e serene. Non sopporto assolutamente di essere trattata come una specie da tutelare,  dobbiamo subire delle regole assurde come le quote rosa. Non vogliamo niente gratis, vogliamo conquistarcelo.
Perché il petto di un uomo che gira per strada a torso nudo non fa scandalo? Un uomo può essere grasso e pelato ed essere considerato bello. Perché se tocco la gamba di un uomo è una gamba e se un uomo tocca la mia è un approccio sessuale? In fondo il corpo è solo carne. Tieni le gambe a posto, signorina! Diceva una mia zia vedova e senza figli. Non sopportavo che s’intromettesse nell’educazione che mia madre mi dava e che mio fratello potesse tenere in quanto uomo un comportamento diverso dal mio. Non mi piacevo, ma pensavo che presi singolarmente, occhi, bocca, orecchie, non avevano niente di sbagliato, non capivo come mai, nell’insieme io mi sentissi così brutta.
A volte mi stendevo sul tappeto e stavo lì, fin che ce la facevo, senza respirare. Aspettavo che qualcuno si accorgesse di me pensandomi morta o agonizzante, ma non ha mai funzionato, era solo un gioco.
Di certo non ho mai messo in dubbio l’amore di mia madre nei miei confronti, non so che cosa volessi di più di quello che già mi dava. E mangiavo, mangiavo e ingrassavo e mi prendevano in giro bambini conosciuti e sconosciuti, mi sentivo inadeguata. Ricordo che un giorno, avrò avuto 10 anni, ho mangiato da sola una faraona alla panna e non so quant’altro. Quando ho capito che qualcosa non andava ho chiesto aiuto, volevo andare da un dietologo, ma mio padre mi ha offerto in cambio una visita psichiatrica.  Sua figlia era perfetta, forse era solo matta. Magari l’avesse fatto davvero! Mi sono aiutata da sola, ho smesso di mangiare, ma dallo psichiatra avrei dovuto andarci ugualmente perché mangiavo troppo poco.
Mi piaceva troppo il cibo e anche la vita era una sfida  cosicchè, complice lo “sviluppo” sono dimagrita, ho ricominciato a mangiare e ho iniziato a volermi non dico bene, ma di sicuro meglio. Però ero pazza lo stesso. Pazza ma perfetta perché da un genitore perfetto non può che nascere un figlio perfetto. Certo perfetta come potenzialità, ma da mio padre non ho mai ricevuto un complimento, una gratificazione o per lo meno non me ne sono accorta. 
Quando frequentavo la scuola elementare, capitava che alcune mie compagne ogni tanto andassero all’ospedale per qualche piccolo intervento. Magari fosse capitato a me pensavo...... Se mi fossero venuti a trovare avrei avuto  l’opportunità di rendermi conto se a qualcuno importava di me. Ho pregato che mi venisse l’appendicite, mio fratello aveva rischiato la peritonite e mi pareva fortunato.
La  moda cambia, ma a volte è strano. Pensate che quando ero ragazzina, e non era medioevo, i maschi andavano a scuola con i calzoni corti anche d’inverno: ora se ti presenti a scuola così ti arriva una nota sul registro “veste in modo non consono”. A volte non so se eravamo più bigotti allora o adesso.
Sono confusa, forse rientra nel problema della mia pazzia. 
Che differenza fa. Capelli lunghi o corti, barba o non barba….. ma che barba! Tutte cose inutili, solo apparenza e niente sostanza. “Papalone, te quiero mucho!” ti dicevo padre mio all’età di 2 anni, ma quando ho cominciato ad avere paura sentendo il tintinnio delle tue chiavi  mentre ti avvicinavi alla porta di casa?
Mia madre era un angelo, non ci sono molte parole per descriverla, la persona più sincera e disponibile che io abbia conosciuto, un carattere dolce, senza difetto alcuno se non quelli che lei stessa dichiarava con la sua trasparenza. Avrei voluto somigliare a lei, a lei che amava la vita e le persone come se tutto fosse bellezza, a lei che è morta a solo 53 anni.
Solo un anno in più ed anch’io avrò la stessa età e ho sempre pensato che per me è impossibile superare quella soglia perché non riesco ad immaginarmi – vecchia - fra le braccia della mia bellissima mamma. Non che non portassi amore per mio padre, lo stimavo per l’altruismo e la bontà che sapevo avere dentro, avevo riscontri tangibili, persone che mi ringraziavano per strada per la sua generosità, ma il suo carattere chiuso, esageratamente severo, me lo rendeva incomprensibile, ostile e inaccessibile. No perché no, si perché si; non è facile da accettare, così come non era facile accettare l’eccessivo nervosismo verso la mamma e verso qualsiasi cosa si facesse senza il suo preventivo consenso. 
Loro si amavano, ma io avrei voluto che si separassero per vedere la mamma libera di esprimersi, di volare come meritava. Strano no? Di solito i figli vogliono tenere i genitori uniti anche nei casi più disperati, io al contrario li volevo dividere, altro sintomo della mia pazzia? Mio padre ora è un morbido pezzo di pane.
Le manie sono state per anni il mio grande problema; paura di non aver chiuso bene la porta di casa, paura di aver lasciato il gas aperto, paura di non avere staccato la spina del ferro da stiro. Queste ed altre fobie erano alimentate dal terrore che una mia dimenticanza potesse procurare un danno grave ad altri, non potevo rischiare di arrecare un danno per mia colpa. Il senso di colpa in me era fin troppo ben radicato. Queste psicosi mi hanno tormentata per anni rendendomi la vita pesantissima, ad ogni cosa che facevo associavo un effetto potenzialmente pericoloso per ricaduta su altri.
Per la porta di casa si apriva il discorso ladri, non per quello che potevano rubare, c’era ben poco, ma per il pericolo di trovarli in casa, per il gas immaginavo già il palazzo esploso, il ferro da stiro invece la causa di un corto circuito con annessi fuoco e fiamme e così via…. Ma non solo queste eventuali dimenticanze mi ponevano problemi, anche azioni od omesse azioni.
Ormai ero grande ma i miei fantasmi continuavano a perseguitarmi. A 18 anni non volevo prendere la patente per non essere causa di inquinamento e per non rischiare di fare incidenti e fare male a qualcuno. Fortunatamente, dopo la maturità, alla prima domanda di lavoro mi dissero che se  non ero automunita, di lavorare,  non se ne parlava nemmeno, quindi mi iscrissi all’autoscuola. 
Come tante ragazze della mia età ho ricevuto insegnamenti derivanti dalla cultura cattolica. Fare domande a quei tempi non era utile, si trattava solo di ottemperare  comandamenti e rispettare  dogmi. Diciamo che per una che digeriva solo quello che capiva era già un grosso problema ma era anche acuito dal fatto che mio padre diceva che i preti non sbagliavano mai perché Dio parlava per loro tramite. Sta di fatto che nonostante contestassi tantissime cose della Chiesa, mi restavano incollate addosso  un’infinità di paure indotte da quell’insegnamento.
Mi sono chiesta un giorno quale fosse il mio ultimo desiderio prima di morire. Ero molto giovane ed ho pensato che avrei voluto provare cosa volesse dire fare l’amore….. e poi mi sono detta: "Brava! Fai una vita cercando di evitare i peccati e poi, sai che devi morire e scegli proprio il peccato che hai cercato di evitare fino ad ora per andare all’inferno in compagnia?"
E mi convinsi che era giunta l’ora di scegliere e di concedermi all’amore della mia vita, ma nonostante le precauzioni per non rimanere incinta, quando mi ammalavo, cercavo di non prendere medicine che potessero danneggiare un feto, non si sa mai!
A volte ho desiderato morire anche se non so fino a che punto, forse è una sensazione che prima o poi provano tutti, almeno per un attimo, ma comunque non rientrerebbe nelle  mie possibili opzioni far soffrire qualcuno per un procurato decesso per cui mi sono sempre tenuta salda la mia vita finchè morte naturale o accidentale ci separi. 
E’ il dolore degli altri che non riesco a sopportare, non capisco il motivo per cui la vita regala a qualcuno tanta gioia e a qualcuno tanto dolore, a volte senza mezze misure. 
Proprio perché non sopporto il dolore altrui, ho gettato nella spazzatura il diario della mia adolescenza.
Anche se con qualche problema di “pazzia giovanile” io sono fra le persone che immeritatamente hanno avuto una vita di gioia e pure questo, tanto per cambiare, mi fa sentire colpevole!
Ma la mia vita ha fatto un autentico balzo in avanti dal momento in cui all’età di circa 16 anni ho conosciuto il ragazzo con il quale sono sposat da 30 anni.
Un'accoppiata vincente, mi ha aiutata a crescere liberandomi a poco a poco dalla zavorra che mi impediva di essere me stessa, ha sciolto le catene con le quali io stessa mi ero legata.
Questa fase della mia vita è ancora in evoluzione, ci sto ancora lavorando, ma questa è un’altra storia.



3 commenti:

  1. Cara Carla se ti può consolare non eri pazza o almeno non lo eri solo tu. Io per esempio ho bellissimi ricordi della persona che era mio nonno, di quando mi caricava sul sellino della sua bici e mi portava a Fiorenzuola (per me la città dato che abitavo in campagna)a far colazione al bar Riva (il bar dei signori), di quando mi accompagnava nel suo vigneto e lo aiutavo a vendemmiare o a pigiare l'uva: affondavo i piedini in quella meravigliosa uva e mi sentivo felice... potrei scriverci un libro. Ricordo la persona dolce e accondiscendente che era mia nonna e dell'infanzia bellissima che mi hanno fatto passare visto che mi hanno allevata loro (almeno nei primi anni di vita). Crescendo posso assicurarti che le paure, i condizionamenti dei quali parli, chi più e chi meno, quelli della nostra generazione o almeno quelli che pensavano, li hanno provati in molti perché erano la conseguenza di un tipo di insegnamento e di educazione ricevuti. I sensi di colpa purtroppo, anche senza volere é la vita che te li inculca: troppe le contraddizioni che ci troviamo a vivere quotidianamente, troppo qualunquismo, troppa invidia, corsa al successo ad ogni costo; azzardo : un po' troppa "cattiveria". Per quanto riguarda il parlare con Dio io ci parlo ancora ogni giorno: parlo con quel dio che rappresenta la povera gente, le persone sfruttate, maltrattate, quel Dio che rappresenta ed é rappresentato da quei preti che combattono contro la mafia, lottano con la strada, contro la droga, si adoperano nel riscatto delle vite umane. Io con quel Dio ci parlo ogni giorno e gli chiedo di aiutarmi a rendermi migliore, aiutarmi a calarmi nei panni degli altri, che mi aiuti a capire e non a giudicare, che mi aiuti ogni giorno a vivere un buon giorno e perché no a togliermi quella zavorra e quelle catene che tu dici"con le quali io stessa mi ero legata". Non sono bigotta e nemmeno praticante eppure "il mio Dio", quel Dio con il quale parlavo da piccola mi ascolta ancora oggi.
    un bacio Stefi

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    1. Ti ringrazio per avermi portato la tua testimonianza, penso che in questo testo ci sia molto materiale per discutere di argomenti comuni a tante persone. Io mi sono posta davvero la domanda se fossi pazza oppure no, e forse, superate le angosce tipiche di una certa età, essere un po’ pazza è stato per me quasi motivo di orgoglio. Sì, perché non sono mai stata una calcolatrice, sono sempre stata impulsiva ma riflessiva, sembra una contraddizione ma non la è. Alle riflessioni che mi infervoravano al primo momento succedevano le seconde riflessioni, più pacate, che mi permettevano di formarmi una vera opinione. Il mio naturale essere un po’ fuori dagli schemi, la non uniformità ai più comuni comportamenti ed idee è ancora oggi una spontanea manifestazione di me stessa alla quale non rinuncerei per nulla al mondo. Non so se oggi posso dire di aver raggiunto un vero equilibrio, ma se la mia vita deve stare su di un filo oggi lo accetto e con passione la vivo cercando più di ogni altra cosa il dialogo come risorsa indispensabile per la risoluzione dei problemi.

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  2. Ciao Carla,
    ogni tanto guardo il tuo sito e leggo le tue riflessioni: colgo un desiderio continuo di guardarti dentro, segno di sensibilità e sincerità.
    In ogni modo mi fa ricordare i bei tempi del Romagnosi....
    Con affetto e simpatia.
    Pierangelo

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